Depressione: sappiamo cosa significa?

Depressione: sappiamo cosa significa?

IMG_1354A chi non è capitato di avere un periodo no? A chi non è successo di sentirsi un po’ giù e di accusare lo stress quotidiano? Forse solo a un monaco buddista forgiato da anni di meditazione. A noi altri, esseri umani impiantati in una società che ci vuole sempre al top,( dentro e fuori), sul podio, (nella vita pubblica e in quella privata) e, soprattutto, sempre felici e vincenti, beh…capita piuttosto spesso di non reggere più la pressione.
Ora ho un’altra domanda. A quanti e a quante è capitato, in questi periodi di tensione, di affibbiarsi l’appellativo di “depresso/a”? Quant* lo hanno invece utilizzato per descrivere un* amic* magari un po’ pigr* e vagamente asociale? Beh, è proprio Perché questa parola tende ad essere sulla bocca di tutt*, per un motivo o per l’altro, che oggi ne voglio finalmente parlare.

Certo, potrei tenermi stretta alle mie cause da femminista attivista e parlare della depressione post parto, ad esempio. Di come questa non sia mai stata scientificamente associata a cause ormonali, bensì a particolari condizioni sociali. Potrei sottolineare il fatto che la depressione maggiore è frequente due volte di più nelle donne piuttosto che negli uomini e potrei divagare su tutte quelle che sono le malsane reti sociali in cui noi, come donne e perché tali, incappiamo, un giorno dopo l’altro.

E invece no. Voglio dedicare questo articolo alla pura e semplice informazione. Voglio ricordare a tutti e a tutte che “depressione” non è sinonimo di “tristezza”. Voglio che sia chiaro che la depressione è una malattia, una malattia brutale che ogni anno provoca la morte di 30.000 persone. Una malattia che se sottovalutata non lascia tregua, poiché, se non curata, si ripresenta nel 50% dei casi. Una malattia che viene troppo spesso trattata con leggerezza, ed ecco che numerose persone da essa affette si ritrovano canzonate e prese in giro per la loro “poca voglia di fare”, invece di essere supportate e aiutate. Ecco che una persona depressa è portata a vergognarsi della propria stessa condizione, quando invece non ha nessuna colpa perché, ricordiamolo una volta per tutte: spesso non esistono cause esterne ovvie della depressione.
Persone che si ritrovano in un tunnel fatto di insonnia, di perdita dell’appetito, di fatica, di sentimenti negativi come l’ansia, il senso di colpa, di preoccupazione e, addirittura, la contemplazione della morte, vivono sulla soglia della falsità, emarginate da un pensiero comune che spesso addita la depressione come un Minotauro, una figura mitologica inesistente.

Io direi che è giunto il momento di porre un freno a questa catena di ignoranza. Direi che è ora di affrontare il fatto che alcune persone dovrebbero smetterla di abusare di questa parola, perché sentirsi spossati non è sinonimo di una condizione clinica potenzialmente mortale. Direi che molte altre persone dovrebbero invece accettare che le vittime di questa patologia sono tante, ( il 20% della popolazione soffre infatti di almeno un grave episodio di depressione nel corso della vita), e che parlando di questi temi non si fa allarmismo, ma si cerca bensì di frenare le statistiche che riportano dati sempre più preoccupanti e che assomigliano sempre di più a veri e propri bollettini di guerra.

Detto questo, io, purtroppo, devo fermarmi qui. Non sono un medico, sono un’attivista. Non posso approfondire la tematica dal punto di vista scientifico, posso solo richiamarci al buon senso e spingerci ad essere più informati ed aggiornati. Posso solo sperare che le mie parole vi abbiano fatto vedere le cose, almeno per un istante, da un altro punto di vista. Posso solo augurarmi che tra i lettori e le lettrici nessun* sottovaluti più la depressione, che nessun* biasimi più chi è patologicamente depresso e, soprattutto, che nessun* depress* arrivi più a a biasimarsi.

Il Capybara Femminista 

Da grande sarò America Chavez

Da grande sarò America Chavez

img_1176Per la rubrica di oggi, il Tucamingo prende una direzione ancora inesplorata. L’esempio da seguire, l’eroina da emulare e da cui lasciarsi ispirare, non è, come al solito, un personaggio storico, (sebbene anche la protagonista di oggi, la storia, in qualche modo, abbia deciso di farla), ma una supereroina formato Marvel, con tanto di six-pack e superpoteri!
Parliamo di niente popo di meno che di Miss America Chavez, eroina latinoamericana, strafiga, e ,soprattutto, queer. America non è un personaggio del tutto nuovo per Marvel, che infatti la fece comparire già in alcuni numeri degli “Young Avangers”, ma del tutto nuova sarà la serie che la vedrà come assoluta protagonista, prevista per questo anno 2017 e intitolata semplicemente “America”.

America, contrariamente a ciò che molti potrebbero pensare, non è il primo soggetto appartenente al movimento LGBTQ che la Marvel ha sfornato, per cui in questo senso, la tostissima Chavez non stabilisce nessuno primato. È, però l’unico personaggio latinoamericano ed è questo tratto che, a parere mio, acquista molto valore.

Ovviamente non potrei essere più felice per il movimento LGBTQ: credo fermamente nella rappresentazione come valvola per l’accettazione di se, per cui l’attenzione di Marvel nel rappresentare vari orientamenti sessuali nelle pagine colorate dei suoi vibranti fumetti è, senza dubbio, lodevole. Ma, credo sia abbastanza palese che Marvel abbia voluto mandare un messaggio non tanto alla LGBTQ community, quanto più a tutti i lettori che stanno vivendo questo periodo storico. E se parlo di questo periodo storico con così tanta amarezza, sono sicura abbiate capito chi ho in mente in questo momento.

Donald Trump.

Donald Trump, non solo ha fatto intendere di voler ristabilire i centri di correzione psicologica (illegali da decenni) per tutti quelli che non sono eterosessuali cisgender, ma, come tutti sanno, ha basato la sua intera politica sul razzismo, indirizzandola in particolare contro I sud americani che, secondo questo genio indiscusso, andrebbero confinati “lontano” dall’America con quella che sarebbe la più umiliante opera di edificazione della storia.

In questo panorama, Marvel ha messo sul piedistallo America Chavez: queer, orgogliosamente latina e quanto più tosta la potessimo immaginare. E non credete anche voi ci sia una vena sarcastica nel fatto che la linea di fumetti a lei dedicata si chiami “America”? Vogliamo ricordare inoltre il fatto che la prima copertina ha rappresentato America nella stessa posa e con un vestiario che ricordava palesemente la copertina di Formation di Queen Beyoncé? Penso che tutti o quasi tutti abbiano perlomeno sentito parlare di questa canzone e di quanto la Queen abbia voluto tingerla dei toni del Femminismo Nero. Pensate sia un caso anche questa scelta?

Io credo di no. Sono convinta, anzi, che Marvel voglia sanzionarci tutti, metterci sull’attenti e chiederci di riflettere. Marvel, attraverso America Chavez, sta facendo ciò che tutti dovremmo fare: utilizzare i mezzi a nostra disposizione per denunciare, lottare e resistere.

Il Capybara Femminista

Catcalling: contro chi puntare il dito?

Catcalling: contro chi puntare il dito?

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Ci sono episodi, pezzi della tua vita, che per anni ti sembrano aspetti secondari. Ti sembrano marginali, quasi confusi e in generale non ti aspetteresti di certo che possano avere presa sulle persone o cambiarne addirittura il punto di vista. Ecco, è proprio in questa situazione che mi trovavo fino a qualche settimana fa.

Torniamo indietro nel tempo di circa una ventina di giorni. Scena: Torino, ore 17.35, il Capybara esce di casa con indosso abiti sportivi coperti da un lungo cappotto nero che faceva pentant con il mio terribile mood da studentessa in piena sessione d’esame. Insomma, parliamo di un outfit d’effetto, accuratamente studiato e coronato da un bel paio di scarpe da ginnastica comprate per fare jogging, in uno slancio salutista, ma mai davvero utilizzate per quello scopo.
Fin qui è tutto molto banale, e mi piacerebbe potervi dire che, attraversando la città a piedi, io abbia avuto la possibilità di rilassarmi e godermi il tramonto mentre raggiungevo il centro per incontrare il mio ragazzo. Già. Mi piacerebbe molto, ma se tutto fosse andato così serenamente io non sarei nemmeno qui a scrivere un articolo.

Quello che è successo quel pomeriggio mi fece arrivare mezz’ora dopo a registrare video in cui ero letteralmente fuori di me e a caricarli sulla pagina Instagram del tucamingo. In quei video, agitata da un misto di ribrezzo, odio e impotenza, descrivevo quello che mi era successo: non una, non due, nemmeno tre, ma addirittura quattro persone mi avevano molestata verbalmente in un arco di tempo di circa 30 minuti (sono stata fuori casa dalle 17.35 alle 18.05 circa). I commenti andavano dal tremendamente gettonato “Ciao, bella!” al più raro, ma comunque per niente banale “Me lo fai un bocchino?” fino all’evergreen della molestia verbale: la rinvigorente fischiatina di apprezzamento.

Vorrei potervi dire che sia stato questo l’elemento scatenante, il turning point, l’epifania che mi ha fatto decidere di scrivere questo articolo. Beh, no. Questo genere di esperienza per me è fin troppo frequente, si parla quasi di una scabrosa routine. Il punto è che quel giorno, per la prima volta, io ho condiviso senza mezze misure quanto mi era successo e le reazioni che quei video hanno suscitato mi hanno fatto capire che avevo fatto la cosa giusta. Mi hanno fatto capire che denunciare questo problema e delineare soprattutto la condizione di vittima che mi ha fatto sperimentare era qualcosa che andava fatto con più frequenza.

Qualche settimana dopo ne ho parlato al meeting con le fantastiche donne della Women’s March in quello che è stato un ricchissimo momento di confronto personale. Tanti sguardi comprensivi mi hanno fatto realizzare quanto comune fosse questa esperienza e quanto peso avesse condividerla. Dopo quel giorno ho provato a parlarne con mio padre. Mio padre, aka quello che è scettico a prescindere e se convinci lui hai vinto tutto e ciaone. Mio padre è passato dal guardarmi con scarsa convinzione al raccomandarsi due o tre volte prima di lasciarmi uscire di casa, perché ora avverte il pericolo quotidiano così come lo avverto io.

Parlandone con mio padre sono arrivata a costruire un quadro completo. Gli ho raccontato di come, appena dodicenne, i commenti che sentivo per strada erano già arrivati a un tale livello di frequenza da farmi avere letteralmente paura di uscire. Gli ho detto di come questa cosa mi fece vivere male il rapporto con la mia fisicità: io cambiavo in fretta, maturavo e mi trasformavo in una giovane donna, ma le mie amiche ancora no. Le mie amiche, purtroppo o per fortuna, ancora non avevano sperimentato cosa volesse dire portarsi le proprie curve e la propria femminilità addosso come se fossero un handicap, una caratteristica invalidante. Quindi, se certe cose venivano dette a me e non a loro, il problema ero io.

Questo pensiero arrivò a tormentarmi. Arrivai persino a pensare che il problema fosse il mio naso. Forse era quello, sì, a darmi quell’aria da ragazza facile, perché se i ragazzi, gli uomini, se i maschi si permettevano di dirmi certe cose era perché qualcosa in me suggeriva la mia disponibilità, giusto? Purtroppo, all’epoca, in piena adolescenza, mi risposi di sì, che era giusto. E quindi se un compagno di classe mi diceva che avevo la faccia da porca, ridevo, anche se non avevo ancora dato il mio primo bacio. Se un coetaneo faceva una battuta sulla mia sessualità, io passavo oltre e mascheravo con del finto imbarazzo ciò che in realtà era rabbia e disagio. Se un uomo per strada commentava il mio corpo, io mi stingevo nella giacca e correvo via, senza dire niente, convinta che l’unica cosa che potessi fare era nascondermi.

Ecco, ora non mi sembra più il caso. Non c’è niente da nascondere, perché questi atteggiamenti, che mi auguro di poter presto designare come crimini, sono alla luce del sole. Dobbiamo parlarne di più, rispondere a tono e, soprattutto, far passare l’idea per la quale non si tratta di complimenti , ma di violenza. E in questo caso non si parla di opinione, ma di ipocrisia e di ignoranza. Non si può non denunciare come crimine e come violenza un comportamento che ti porta a chiederti due o tre volte se sia il caso o meno di indossare il rossetto prima di uscire di casa. Non si può sminuire la potenza brutale di uno sguardo che ti fa sudare freddo e che ti fa accelerare i battiti cardiaci. Uno sguardo unto di desiderio che ti fa sentire preda.

Quando abbiamo cominciato a considerare più giusto avere la libertà di trasformare un altro individuo in un oggetto sessuale piuttosto che avere la libertà di poter uscire di casa serenamente?

Forse questo è considerato un argomento trito e ritrito da alcuni, mentre altri potranno persino faticare cercando di capire a cosa mi sto riferendo, ma non mi importa. Questo articolo non è scritto per voi, non principalmente almeno. Questo articolo è pensato per tutte quelle ragazze che a causa di questa forma di violenza hanno cominciato a viversi come un problema e che non sanno come smettere. Per tutte quelle che hanno imparato a puntare il dito contro se stesse e mai contro gli altri. Ragazze mie, ci vorrà del tempo per passare oltre e non lo nego, ma lasciate che ve lo dica: sono già tanti i vostri carnefici. Non permettetevi di vestire i loro stessi panni. Cambiate prospettiva.

Always yours,

Il Capybara Femminista

Latte e biscotti con Tano

Latte e biscotti con Tano

IMG_3126Quasi dieci anni fa bevevamo insieme una limonata sulla spiaggia di Acireale, vicino a Catania, godendoci le spensierate parentesi delle vacanze estive. Io che con la mia pelle pallidissima da milanese imbruttita mi scottavo già il secondo giorno di mare (e mi ritrovavo costretta a scendere in spiaggia in maglietta) e lui che, da vero siciliano verace, era sempre di una sfumatura di marrone che io da piccola potevo associare solo ad una barretta Kinder.
Mai, e lo ripeto, mai, ci saremmo immaginati di ritrovarci a Torino, molti anni dopo, da studenti universitari, da buoni amici e da femministi.

Tano comincia a parlarmene così.

Sì, mi definisco femminista, se teniamo in mente quale sia la definizione di femminista, ovvero una persona che crede nella parità politica, economica e sociale tra i sessi. Però ovviamente ci sono delle iniziative o dei pensieri che magari vengono portate avanti da esponenti del femminismo, o da persone che si dicono femministe, che non condivido o che magari non trovo utili. A volte trovo alcune cose un po’ estreme, poi non so, magari sono io che non sono ancora abbastanza risoluto. Poi sarà un po’ una frase da alternativo hipster, ma in un certo senso penso che darsi un’etichetta può essere molto limitante. Rischi di attribuirti pensieri e posizioni che poi magari non ti riguardano nemmeno.

Come è essere un ragazzo femminista?

Non è diffusa come ideologia tra i ragazzi. C’è una bruttissima tendenza ad associare il femminismo con il concetto di debolezza. Se un uomo si interessa a certe politiche innanzitutto viene guardato con curiosità perché si pensa che siano cose che non gli competono, della serie “Cosa te ne frega dei diritti delle donne?”. E poi l’immagine che di conseguenza rischi di crearti è quella di “ricchione”, un altro ruolo che nell’immaginario comune e sbagliato è associato alla debolezza, un po’ come qualsiasi cosa esca strettamente dall’area di competenza del ruolo di genere maschile, dopotutto. Insomma, c’è molta ignoranza in giro e per non incappare in delle cattiverie molti uomini si tengono lontani dal femminismo, ed è per questo che siamo in pochi. Tra l’altro spesso il concetto di parità su cui si basa il femminismo viene forviato con slogan o idee che non sono funzionali per il movimento, e che sottolineano un’idea di superiorità delle donne sopra agli uomini. Questo non è femminismo, ma il fatto che concetti del genere vengano portati avanti da persone che si dicono femministe, funziona da deterrente.

Ti sei mai ritrovato a dover spiegare a qualcuno che cosa sia il femminismo?

Mi ci ritroverò sicuramente dopo questa intervista! Comunque no, se non in qualche occasione su Facebook, ma comunque, sai, è molto difficile avere un confronto costruttivo sui social, dove tendenzialmente non si cerca un dialogo, ma si vuole imporre la propria idea. In certi casi mettersi a spiegare lo trovo persino inutile. Un conto è avere davanti una persona che vuole avere una conversazione, un conto è avere davanti una persona che vuole solo avvalorare la tesi per la quale le donne devono stare in cucina e gli omosessuali sono anormali. È illusorio pensare che da una conversazione su Facebook si possa fare cambiare idea ad una persona che parte da questi preconcetti.

Parliamo del post che hai mandato ad Eretika e che è stato pubblicato sulla pagina di abbatto i muri. Era estremamente originale e mi ha fatto prendere in considerazione un nuovo punto di vista.

Sì devo dire che in quell’occasione mi era stranamente venuto un colpo di genio. Diciamo che in quel post ho semplicemente associato la violenza sulle donne alla violenza sui bambini. Mi sono interrogato sulla violenza. Studiando un minimo di pedagogia ho imparato che se da una parte si parla di un minimo di predisposizione biologica, dall’altra si parla soprattutto di educazione e di ambiente socio-culturale. Mi è venuto da pensare a quanto siano frequenti le espressioni di violenza (quante volte anche qualcuno dei lettori ha ricevuto uno schiaffo da bambino o una sculacciata). E ho notato che si considera poco questa forma di violenza in associazione al comportamento di una persona adulta.

Quindi come ti poni nei confronti della violenza di genere?

La persona violenta non è giustificata ad agire in quel modo, ovviamente è un atteggiamento che va, non punito, perché non mi piace come termine, ma va regolato, e ovviamente non è implicito che una persona con dei trascorsi particolari diventi un adulto violento. Però c’è da considerare che non è un caso e che spesso sono manifestazioni consequenziali. Bisognerebbe trovare una matrice della violenza sulle donne, e credo che interrogandoci sulle forme di educazione potremmo facilmente trovarla. Se ci fosse un’educazione adeguata forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di perseguire la violenza di genere, perché, idealmente, non esisterebbe come crimine.

Come si concretizza questa educazione adeguata?

Educazione adeguata è un termine abbastanza vago, me ne rendo conto. Ovviamente si deve tenere conto delle culture e delle abitudini, capisco che tante cose influiscono, (anche solo le disponibilità economiche). Ciò che tengo a dire è che ci sono degli atteggiamenti e delle abitudini nei processi educativi che vengono considerati normali, ma che invece andrebbero attenzionati. Tipo, appunto, il fatto dello schiaffo o della sculacciata. Con troppa facilità vengono dati schiaffi ai bambini. E poi, pensiamo alle motivazioni che magari un padre si ritrova a dare a un bambino dopo averlo colpito. “L’ho fatto perché ho avuto paura”, “L’ho fatto perché ti voglio bene”. Ci sono uomini che nel rapporto di coppia motivano la violenza nello stesso identico modo, e qui secondo me emerge il tratto della consequenzialità. Tra l’altro collettivamente tendiamo a esaltare questa educazione violenta. Pensa a quante volte si sente dire in risposta ad un qualsiasi comportamento sbagliato “Ah, se ne avesse prese di più da piccolo!”. Io questa idea dello schiaffo come modello educativo non la concepisco, anzi, la trovo deplorevole. Utilizzare una punizione violenta può indurre il bambino a non associare alla punizione l’errore che ha commesso, ma a pensare, invece, che quello sia l’unico modo di reagire a qualcosa che lo turba.

Lo ringrazio sinceramente e metto da parte il registratore. Ora parliamo un po’ dei bei vecchi tempi.

                               

  Il Capybara Femminista

Da grande sarò Kimberlé Williams Crenshaw

Da grande sarò Kimberlé Williams Crenshaw

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Per parlare di Kimberlé, dobbiamo ripassare insieme e brevemente quella che è la storia del femminismo; non solo perché c’è sempre bisogno di ricordare quanta strada è stata fatta e quanta ce ne sia ancora da fare, ma anche perché Kimberlé, parte di questa storia, ha contribuito a farla!

Il Femminismo si divide in ondate, ogni ondata è caratterizzata da un target preciso verso cui l’attivismo si è indirizzato o si direziona (aprite bene le orecchie voi che dite che “ormai avete raggiunto il diritto di voto, cosa volete di più?”). Tanto! C’è ancora tanto da fare, ed ogni ondata ha mosso la società a più livelli affinché fosse ottenuto di più, affinché ci fosse più giustizia, affinché si salisse un altro gradino della tortuosa scalinata che porta alla parità.

Ecco brevemente quali sono le ondate di femminismo:

1) La prima ondata è quella delle suffragette: siamo all’inizio del XX secolo e le donne si battono per i diritti delle donne, in particolare per il diritto di voto.

2) La seconda ondata è quella degli anni ’70: le donne scendono in piazza accompagnate dallo slogan “L’utero è mio e me lo gestisco io”. La lotta per l’emancipazione sessuale della donna è il fulcro di queste proteste.

3) La terza ondata è quella degli anni ’90: il movimento sociale si lega al mondo della musica, nascono le girl band e, ancora una volta, le protagoniste sono le donne, anzi, le ragazze, che inneggiando al girl power aggiungono capi maschili nei loro guardaroba, dai pantaloni stracciati alle cravatte, tutto per dire: “Noi possiamo fare quello che fanno loro, e ci riesce pure bene!”.

4) La quarta ondata è quella che stiamo vivendo. Quella che si batte per un linguaggio inclusivo, quella che vuole cambiare nel profondo la cultura sessista che ancora si maschera dietro una superficie di parità che, purtroppo, è solo presunta. La quarta ondata è quella che si prende a cuore gli svantaggi legati ai ruoli di genere, che riconosce come questi svantaggi affliggano anche la parte maschile. La quarta ondata è quella che porta le donne privilegiate (bianche, eterosessuali, cisgender) a riconoscersi come tali e a riconoscere, allo stesso tempo, il divario che le separa dalle comunità cosiddette “minoritarie”. Le femministe e i femministi (sì, perché finalmente ora anche gli uomini sono chiamati a prendere una posizione nel movimento) della quarta ondata si battono per risolvere anche i problemi che non le/li rendono vittime in prima persona, perché, come dice Audre Lorde “Non mi sentirò libera finché non lo saranno tutte le donne. Non importa quanto diverse siano le loro manette dalle mie”. In breve, il femminismo della quarta ondata è il femminismo inclusivo, che si batte affinché sia garantita la parità sociale, politica ed economica, indipendentemente dal sesso, dall’aspetto fisico, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso e dal colore della pelle. E qui possiamo tornare al discorso di partenza, perché è stata proprio Kimberlé ad introdurre il concetto di INTERSEZIONALITÀ.

Kimberlé, come sostenitrice dei diritti civili e principale studiosa della “Critical Race Theory”, ha riconosciuto come le lotte portate avanti dalle donne difficilmente realizzassero come alcuni elementi della società si ritrovassero a dover combattere per più cause e contro più forme di violenza. (Una donna immigrata si ritrova quotidianamente ad affrontare le discriminazioni dovute al suo sesso così come quelle legate alla sua posizione di straniera, ad esempio).

Kimberlé è stata una pioniera nell’aver integrato con le sue teorie alcune lacune che il femminismo doveva assolutamente valutare. Il femminismo, in quanto movimento sociale, e come detto nell’introduzione di questo articolo, si adatta, infatti, ai bisogni dell’epoca in cui esso agisce e in base a ciò determina la sua sfera d’azione e di interesse. Proprio per questo, con l’avvento della rivoluzione  gender, con l’allentarsi dei tabù che per anni hanno soffocato gli orientamenti sessuali, con la nascita di una realtà sempre più globalizzata e di una società multietnica il femminismo ha dovuto, giustamente, fare un passo verso il concetto di intersezionalità, per entrare in questa quarta ondata che, forse, senza Kimberlé, non sarebbe la stessa.

Il Capybara Femminista 

I’m your Venus

I’m your Venus

img_0051Sarà poi così vero che le femministe non si depilano? Magari tra voi lettori e lettrici c’è qualcun* che si aspetta che io sfati questo mito. Qualcun* che mi vorrebbe sentir dire “Assolutamente no! Io mi depilo con costanza e dedizione!”. Beh, credete al Capybara quando vi dice che è sinceramente dispiaciuto di deludervi.
Io mi depilo quando mi va, se mi va e soprattutto dove mi va. (Se qualcun* di voi sta pensando “eh ma il tuo ragazzo cosa ne pensa?”, permettetemi di zittirvi subito prima che le vostre visioni sessiste facciano più male che bene e permettetemi di consigliarvi di raccogliervi in qualche minuto di silenzio per pensarci).
A quell* che si aspettano di sentirmi dire che se una donna si depila, allora non è una vera femminista, perché una vera femminista (per favore notate l’insistenza sulla desinenza femminile, ecco, anche quella fa parte della mia ironia) è tale solo se più simile a una amazzone ripudia-uomini che a qualsiasi altra cosa…beh, mi dispiace, ma devo deludere anche voi.

Non esiste nessun binomio “depilazione-vera donna” e benché meno esiste il binomio “cespuglio ricco e folto- femminista”. Se mai, esiste una solida corrispondenza tra consapevolezza e modo di agire che si distacca dagli schemi. Ecco qual è il punto. Non è che una femminista scelga deliberatamente di non depilarsi perché si fa così. Semplicemente, una femminista è spesso più portata a mettere in discussione i canoni della società, quelli estetici così come quelli sociali, politici ed economici, perché è il movimento stesso che la spinge a farlo.

Ci possono essere milioni di motivi che portano una donna ad abbandonare la scelta della depilazione, motivi che possono anche non centrare nulla con il femminismo. Potrebbe essere perché è un’abitudine dispendiosa, ad esempio; potrebbe essere per personale gusto estetico; potrebbe essere semplicemente che ha capito che la depilazione femminile vissuta come un’imposizione, un must, una caratteristica talmente implicita nell’essere donna da essere data per scontata, non è che una convenzione dettata da stereotipi per lo più maschilisti, laddove per maschilisti non si intende tanto decisi dagli uomini, quanto più dettati a vantaggio di essi e delle donne che innanzitutto ad essi vogliono piacere.

Una volta appresa questa profonda verità, non è nemmeno detto che una donna abbandoni completamente la scelta della depilazione. Anche qui ci possono essere milioni di motivi, a partire, ad esempio, dal fatto che sentire le lenzuola fresche di lavanderia che scivolano sulle gambe appena depilate è uno dei piaceri della vita.

Quello che voglio dire è che quando si parla di depilazione, le parole chiave sono due: scelta e consapevolezza. Il punto è capire che non c’è niente di imposto, o meglio, che per quanto sia imposto ad una donna di essere completamente glabra, tanto da comparire perfettamente depilata persino nelle dimostrazioni in TV dei silk-épil, basta ragionare per realizzare che possiamo sempre lasciarci un margine di scelta, un margine che possiamo inspessire a nostro piacimento. Basta davvero poco per cogliere l’assurdità di questa imposizione e basta solo un po’ di pratica per allontanarsi da quel binomio “depilazione- vera donna” indotto tanto dai media quanto dalle mamme che ci portano dall’estetista appena compiamo 12 anni.

La depilazione è una scelta. E, vi prego, ripetiamocelo come un mantra.

Il punto quindi, in questo caso, così come in più o meno qualsiasi aspetto della nostra vita, è cercare di agire a livello consapevole, affinare il nostro senso critico, farci domande e darci riposte, o lasciare che sia un Capybara Femminista a farlo. Una volta instaurato un buon livello di consapevolezza, allora niente sarà più strettamente vincolato alle imposizioni esterne, ma avremo ormai tutte le facoltà che ci servono per agire liberamente, secondo la nostra sensibilità, nel rispetto degli/delle altri/e e di noi stess*, e, perché no, anche dei nostri peli.

Il Capybara Femminista

Il lavoro più antico del mondo

Il lavoro più antico del mondo

img_0006Potevo avere dieci, forse undici anni, e, abitando tra Via Ponte Seveso e Via Tonale, a due passi dalla Stazione Centrale di Milano, ebbi presto l’occasione di incontrarle. Si trattava per lo più di donne cinesi con le facce stanche, solcate da rughe troppo profonde che creavano uno strano contrasto con le gambe snelle che spuntavano dalle loro gonne. Gonne anonime, capelli scialbi e scarpe più simili a ciabatte che a consone calzature. Molto diverse dai lunghi stivali in pelle con prepotenti tacchi a spillo di Vivian, la mia eroina di Pretty Woman. Si avvicinavano schive ai passanti, inspiravano grosse boccate di fumo alla nicotina dalle sigarette perennemente incastrate tra le loro lunghe dita. Chiedevano 10- 15€ in cambio della loro compagnia.

Dieci euro. Mi chiedevo perplessa dove fosse il loro Richard Gere, mi chiedevo dove tenessero i preservativi, non avendo gli stivali in cui nasconderli, mi chiedevo se avrebbero mai fatto shopping sul Rodeo Drive. Soprattutto mi chiedevo se davvero potesse valere così poco una donna. La perplessità era piano piano svanita, mano a mano che quelle scene e quelle facce divenivano sempre più familiari.

Avevo quindici anni quando le signore con gli occhi a mandorla cominciarono a spartirsi la zona con un paio di giovani ragazze albanesi. Forse non erano mai state così giovani, forse è il ricordo delle lunghe code di cavallo e del trucco curato che mi porta fuori strada . Forse era un caso che sembrassero ragazzine, forse faceva parte della loro divisa: un manager senza cravatta non ispira la stessa fiducia, così come una prostituta senza l’aria sbarazzina, forse, non ispira lo stesso desiderio. Entrarono nella mia quotidianità. Davvero cominciai a considerarlo un lavoro come un altro con i suoi pro e i suoi contro, con i suoi clienti e la sua retribuzione. Sorridevo quando vedevo lo scanzonato di turno guardarsi losco alle spalle prima di avvicinarsi a una di loro. Mi sembrava strano che qualcuno potesse dubitare della consapevolezza della gente. Cosa c’era da dubitare? Tutti sapevamo di cosa si trattava.

Ero una diciassettenne quando alle solite che ormai mi erano ben note si aggiunse una ragazza che poteva avere dai venti ai venticinque anni. Penso lavorasse da sola, fissa sempre all’angolo della strada, esattamente ad un isolato da casa mia. Tornavo a casa tardi un paio di sere a settimana: mi trattenevo in Via Murillo a studiare giapponese. La signorina, così avevo cominciato a chiamarla, mi dava tanta sicurezza. Mentre affrettavo il passo verso il mio appartamento, stretta nel giaccone, ancor più stretta dal freddo di Novembre, pensavo alla signorina e a come era coraggiosa lei, che del freddo e del buio aveva fatto la sua professione.

Crescendo, coltivando il mio femminismo e facendo dell’attivismo il mio stile di vita, ho cominciato a guardare alla prostituzione con uno sguardo più critico. Ho cominciato a biasimare quelle donne che sputavano sui piedi delle giovani albanesi, donne piene di odio per quei corpi turgidi che rappresentavano le mine che avrebbero potuto far saltare i loro matrimoni, se gli impavidi mariti-soldato vi si fossero incautamente avvicinati. Ho cominciato a difendere l’innocenza di quelle che i giornali si sono sempre affrettati a liquidare come “baby prostitute”, vittime ancora minorenni di una società che dipinge le donne come oggetti, anzi, che le incolla sui muri delle città e le trasmette su tutti i canali televisivi, che le rende decorazioni, le rende involucro vuoto, le rende sesso e poi le biasima per aver risposto positivamente all’incentivo dato. Ho cominciato a guardare con orrore alla quantità di giovani coinvolte nel traffico di persone tra Nigeria, Corea e Romania, alla quantità di denaro e di interessi implicati.

Ora. Io non ce l’ho una soluzione per fermare la prostituzione. Forse non la voglio nemmeno fermare, perché difenderò fino alla morte il diritto per il quale, con il proprio corpo, una donna dovrebbe fare ciò che vuole.
Ciò che voglio fermare a tutti i costi, invece, è il sacco di ipocrisia che ci portiamo tutti dietro. Il punto è che ciò che la donna davvero vuole, spesso, in questi casi, non conta affatto. Il punto è che si parla di sfruttamento e di violenza e quindi di crimini da denunciare. Si parla di evitare che una donna possa sentirsi talmente sola e abbandonata alle proprie forze da doversi vendere come unica alternativa per la sopravvivenza. Si parla di uscire da una realtà in cui siamo abituati, tutti, tutti i giorni, a puntare il dito con astio verso una gonna troppo corta, scorta ad un’ora troppo tarda della notte, indosso ad una donna troppo appariscente, senza realizzare che lo sporco non sta in lei, ma nel mondo che la circonda e nella realtà che, su una strada, con una fila di clienti smaniosi, ce l’ha voluta.

Il Capybara Femminista 

Riflessioni di una femminista a Natale

Riflessioni di una femminista a Natale

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La zia che durante il pranzo di Natale ribadisce a mia madre l’importanza di cucinare per l’occasione i cibi preferiti di suo marito, mio padre, senza curarsi delle preferenze di ospiti e figli. Il parente che mi guarda scandalizzato quando sprono mio papà a dare una mano a sparecchiare, visto che c’è tanto da fare e ce ne stiamo occupando solo io e mia sorella. Le discussioni in cui alle mie osservazioni, ovvero quelle di unA ragazzA di ventuno anni, le risposte sono “calmati” e “lo zio preferisce/vuole/desidera/ha detto”.

Il Natale…

Quale meravigliosa occasione per osservare la fauna globale e sentirsi privilegiate/i.

Sì, io mi sento una privilegiata. Da una parte mi rattrista, perché il mio desiderio è che un comportamento anti sessista e una famiglia slegata dai ruoli di genere siano la normalità. Ma dall’altra mi riempie di orgoglio vedere che persone della stessa età dei miei genitori, con la stessa formazione culturale e della stessa estrazione sociale (se vogliamo ammettere che questi elementi hanno un peso sulle nostre idee) risultano assurde tanto a me quanto a mia mamma e a mio papà.

Mio padre ha 57 anni, è nato in un paesino di mille anime in cima a quello che sembra essere l’unico monte della Puglia. Livello di istruzione: scuola media, professione: fornaio. Mio padre ha sempre fatto il pane e sempre lo farà. Sempre chiamerà mia madre “cioccolatino”, sempre passerà l’aspirapolvere e sempre si scandalizzerà davanti a un omofobo o un maschilista. Mio padre è l’uomo che vede nel femminicidio il punto più basso delle facoltà umane, che soffre sentendo al telegiornale come questi assassinii non vengano sempre puniti giustamente, che quando ero piccola mi faceva guardare Zorro e giocava con me dopo quindici ore di lavoro. Non importava che io volessi giocare a Barbie, ai dinosauri o alla piccola estetista: lui non si tirava indietro ed era ben contento di farmi spalmare un po’ di lucida labbra sotto ai suoi baffoni.

Mia madre di anni ne ha 59, milanese nel cuore, cinque centimetri più alta di suo marito. Lei è una di quelle donne che sanno bene cosa vogliono e, più di ogni altra cosa, mia mamma voleva costruire una famiglia con mio padre. E per questo si è battuta, ha dovuto farsi valere, puntare i piedi finché mio nonno si convinse che avere come genero un “ mandarino”, un “terrone”, non poteva poi essere la fine del mondo. Mia madre è quella che ha conquistato mio padre rispondendogli “Lo so” quando quella mattina, mentre andava a lavoro, lui le disse “come siamo belle oggi”. Mia mamma ci parla delle donne della nostra famiglia con orgoglio, mi ha insegnato a fare i letti come a lei lo insegnarono le suore del collegio, e più di tutto mi ha insegnato a farmi rispettare. Guadagnarmi il rispetto e darlo solo a chi lo merita.

Quello che voglio dire è che non è di certo un caso che io oggi sia qui a scrivere questo articolo. Non è un caso se collaboro al Tucamingo, non è un caso se sono il Capybara Femminista.
E questa riflessione ha, ovviamente, un messaggio: voglio che sia chiaro ai futuri genitori, a quelli che una famiglia propria ce l’hanno già, ma anche, più semplicemente, a tutti quelli che si preoccupano del segno che lasciano sulle persone che incontrano, che ogni piccolo gesto ha un enorme peso.

Ogni gesto dei miei genitori, ecco, ognuno di quelli io l’ho assorbito ed ha aiutato a formare la mia personalità.

Il messaggio, quindi, è di prestare attenzione al nostro atteggiamento quotidiano, il consiglio è quello di partire da noi stessi. Perché non serve inorridire davanti all’ennesima donna rimasta coinvolta in un assassinio, non basta pensare di aver fatto la propria parte partecipando a una manifestazione in piazza. Il modo in cui ci rivolgiamo a nostra madre, a nostra sorella, alla vicina di casa immigrata, all’amico che ha fatto coming out, alla compagna di scuola che indossa l’hijab, il modo in cui percepiamo il nostro ruolo nella società e come questo sia o meno vincolato dal nostro genere, queste sono tutte occasioni per cambiare le cose. Cambiare le cose, in meglio, perché #NeAbbiamoTuttiBisogno.

Il Capybara Femminista

La vedova dell’Holi

La vedova dell’Holi

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Stimata tra le foto più belle di questo anno 2016: una vedova indiana sdraiata su un letto di petali. La sua pelle è tinta dei colori in polvere utilizzati durante la festività dell’Holi, celebrata al tempio di Gopinath, a Nuova Delhi.

La foto può colpire per la luce, il contrasto dei colori, la nitidezza di quei fiori. Ma si carica di tutta un’altra serie di significati se teniamo presente qual è il ruolo della donna nella cultura Induista e, sopratutto, che trattamento è riservato alle vedove, la cui presenza, fino a qualche anno fa, non era permessa durante la festa dell’Holi. La festa che celebra la vittoria del bene sul male, che celebra l’arrivo della primavera, l’abbandono dei dolori e l’incontro con gli altri, bandiva le vedove, ritenute di cattivo auspicio.

Il ruolo destinato alle donne è codificato nel Codice di Manu, raccolta di leggi che risale al V secolo e che descrive come le ragazze debbano restare sotto la tutela degli uomini della famiglia che, a patto di mantenerle, possono disporne a loro piacimento. Ma, col tempo, persino il vincolo del mantenimento è diventato pesante: avere una figlia femmina obbligava la famiglia a mettere da parte il denaro e i possedimenti che avrebbero composto la dote della giovane futura moglie. L’idea della dote era nata con “nobili” fini, poiché il marito avrebbe dovuto conservarla per la donna in caso di vedovanza o, udite udite, in caso di ripudio; tuttavia, questa tradizione sfociò presto in quelli che sono i meri meccanismi della compra-vendita. Ma anche questo non è stato sufficiente. La donna, se pur ormai brutalmente ridotta a merce, rappresentava l’ingenza di spese che spesso le famiglie non volevano sostenere. Ecco dunque che le donne arrivano a praticare l’aborto selettivo per evitare di generare figlie femmine. Le donne che non partoriscono figli maschi, vengono infatti abbandonate dai mariti e, se questi non hanno provveduto a mettere da parte per loro una piccola pensione, le donne, divenute nubili, sono destinate alla mendicanza e all’estrema povertà. La stessa sorte tocca alle donne vedove a cui spesso rimangono solo due alternative: il Sati, ovvero la tradizione funeraria che prevede che la donna si lanci tra le fiamme della pira del marito, o le elemosina, nella speranza di racimolare qualche rupia.

Per molto tempo le donne indiane hanno trovato il solo scampo a questo turbinio di emarginazione e violenza nella conversione ad altre religioni, come il cristianesimo o il buddismo, a cui sceglievano di dedicarsi attraverso la vita monastica. Paradossalmente, i voti religiosi rappresentavano la promessa di una vita libera dalle oppressioni del matrimonio o da quelle di una casta di infimo ordine.

Oggi, finalmente, sembra che ci si stia muovendo verso un cambiamento che, se pur lento, può essere rilevato dal fatto che in India, su 397 milioni di lavoratori, 124 milioni sono ora donne.
Nancy Lockwood, della Società per la gestione delle risorse umane, racconta di come l’India, da vent’anni a questa parte, stia vivendo un cambiamento sociale in forte contrasto con le aspettative della sua cultura tradizionale. Questi cambiamenti hanno portato le famiglie indiane a dare opportunità di istruzione alle ragazze, ad accettare che le donne lavorino fuori casa, perseguendo una carriera e aprendo la possibilità a queste ultime di raggiungere ruoli manageriali aziendali.

La strada per l’emancipazione delle donne indiane rimane ancora lunga e tortuosa. Il fattore religioso rimane un fattore determinante nella condizione di disparità da loro vissuta: la religione induista, come ormai avrete appreso, nega apertamente alle donne le stesse possibilità che possiedono i loro padri, fratelli, mariti e figli . Secondo l’Induismo, alle donne non resta che sperare di rinascere uomini.

Il Capybara Femminista

Bionda non la voglio

Bionda non la voglio

img_0114“Toy Center” di Via Mauro Macchi, Milano, reparto bimbe.
Faccio scorrere gli occhi lungo lo scaffale: Elsa che canta “Let it go”, Elsa e Anna che cantano “Do you wanna build a snowman?”, Anna e Kristoff versione deluxe con gli abiti scenici e la renna che regge il moccolo. E poi eccola lì: prendo la scatola tra le mani e gli occhi mi si riempiono di lacrimucce di commozione. Barbie con il naso grosso. Un sogno che si avvera.

A tutti quelli che pensano che la lotta “pro rappresentazione” che la Mattel si è finalmente decisa a portare avanti sia una fuffa: parliamone. Parliamone per bene. Prendiamoci del tempo e partiamo dal principio.

Tanto tempo fa, il Capybara Femminista aveva sei anni. Era una bambina vivace che passava l’intervallo sul campo di  calcio, il pomeriggio a spaccarsi le ginocchia in cortile e le serate a giocare a Barbie con papà. Le mie Barbie, però, avevano una particolarità: erano quasi tutte “nere”.
Non le volevo bionde.
La Barbie comune, quella bionda con gli occhi azzurri e il naso alla francese, non mi bastava. Le volevo afro, asiatiche, con la frangetta, con il caschetto. Volevo qualsiasi cosa che fosse un’eccezione rispetto a quella serie interminabile di Barbie dagli occhi cerulei. Ovviamente sapevo di non avere la pelle scura o le lentiggini. Ma sapevo anche di non essere bionda e, se è per questo, non avevo la presunzione di pensare che, una volta adulta, il mio giro vita avrebbe potuto superare di poco la circonferenza del mio braccio. Ma in quelle “Barbie eccezione”, mi ci ritrovavo di più. Quello che rendeva diverse loro rappresentava me. Nella loro unicità trovavo la mia. Perché è questo il rischio di volersi per forza rivedere in uno stereotipo, in un modello: ci si dimentica di essere unici.

Il punto è che esistono bambine con la pelle scura e le gambe corte. Esistono bambine che vogliono essere come le loro mamme ed esistono mamme con il culo grosso, le fossette e i capelli color confetto. E se una bimba ci tiene proprio ad avere le cosce che si toccano quando sarà grande, perché dovrebbe scendere a compromessi? Per chi dovrebbe pensare di non andare bene, di non essere abbastanza?
La giovane Capybara ha trovato la forza di pretendere meno da se stessa e più dagli altri in una Barbie con il rossetto viola e la pelle cioccolato. Spero con tutto il cuore che qualche bellissima bambina possa cogliere lo stesso messaggio, magari, (perché no?), in una dolce bambola con il naso grosso.

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